Questa forma (daolu) venne insegnata a Georges Charles, daoshi della Scuola San Yi Quan e maestro dello scrivente, nei primi anni 70 ad Hong Kong dal patriarca dello stile Hungar Quan (pugno della famiglia Hun) Yuen Yik Kai.
Si tratta di 5 draghi, ciascuno corrispondente ai 5 movimenti dell’energetica classica cinese.
Abbiamo quindi: il drago verde, energia del legno, bianco di metallo, rosso di fuoco, nero d’acqua e giallo di terra.
Ma in ciascuno dei draghi, se pur prevale una energia, sono contenute tutte e cinque.
Si tratta quindi di trovare ciò che ad uno sguardo “profano” non è così evidente.
Il ciclo energetico seguito dalla daolu è quello detto “di rivolta”, o “barbaro”, che ha lo scopo di provocare una profonda depurazione/pulizia/dispersione degli eccessi o blocchi energetici del praticante.
E poi vi sono le tante applicazioni relative ad ogni singolo movimento.
Concreto e sottile in queste pratiche sono sempre inscindibili.
Tutto è Uno: salute, combattimento, evoluzione interiore, lavoro energetico (qigong), interno ed esterno.
Separare in modo dualistico queste componenti impoverisce tutto l’insieme e snatura la grande ricchezza di queste antiche tradizioni.
La dicotomia interno/esterno è particolarmente fuorviante.
Nel senso comune associato alla visione dualistica, vengono messi in contrapposizione concetti come duro/morbido, energetico/muscolare, salutisco/marziale ecc.
Ma non ha senso scomporre dualisticamente un pensiero e una pratica che abbracciano in modo radicale la complessità circolare per poi portare acqua al mulino della linearità bi-polare.
In occidente è dura a morire l’idea che siano separabili energia e materia, corpo e intelletto, psiche e spirito, ma trasporre questa visione meccanicistica a pratiche di origine sciamanica come il kungfu (wushu) ed il qigong non ha alcun senso.
In Cina la genesi di questa faccenda di ciò che è “esterno” (waija) è semplicemente rintracciabile in ciò che è stato importato da fuori: secondo il mito fondativo Bodhidharma portò il buddismo indiano e le pratiche ad esso collegate nel quinto secolo d.c.
Si delinearono quindi gli stili “esterni” (in quanto stranieri) legati alla tradizione del tempio di Shaolin.
Il termine “interno” (neija) era invece utilizzato nel senso di autoctono, e indicava gli stili influenzati dal taoismo classico cinese, preesistenti alle influenze buddiste.
Si tratta principalmente del taiji quan, del bagua zhang e dello xingy quan, stili detti “interni” perchè appunto autoctoni.
Ma poi nella realtà dell’evoluzione storica tutto si è sincretizzato sia sul piano filosofico-spirituale che nelle pratiche collegate.
Dunque questa dicotomia ha un’origine storica tutta cinese, e sarebbe bene che restasse in questo perimetro invece che continuare a generare dualismi intellettualistici quanto inutili e fuorvianti sul piano pratico.
Sfortunatamente la storia del linguaggio, come la storia in generale, la scrivono i potenti e i vincitori.
E i loro vassalli, vassallini e valvassori.
Parole inappropriate come le suddette o altre finiscono per essere adottare da tutti altrimenti non ci si capisce, nemmeno tra addetti ai lavori.
In quanti sono in grado di capire che arte cavalleresca è più appropriato che arte marziale, vero e proprio riduzionismo e snaturamento ideologico-semantico di origine nord americana?
Non ci può essere niente di artistico in qualcosa che attiene il marziale. a meno che non si ritengano tali le marcette militari.
Mentre arte cavalleresca è un concetto che rende bene lo spirito nobile, la rettitudine, il coraggio, la benevolenza delle pratiche.
E’ bene sapere che chi ha in mano le leve della produzione materiale possiede anche quelle della produzione ideologica e culturale, dunque semantica.
Il linguaggio neutro non esiste, è sempre un campo di battaglia in cui si definiscono significati in base ai rapporti di forza.
In altre parole risulta più vendibile un prodotto semplificato, estratto dal contesto, corrispondente quindi ai palati molli dei “mistico-gelatinosi” new age o specularmente a quelli dei neanderthal palestrati.
Queste sopra dette sono le due grandi tifoserie, con relative sotto-articolazioni e specialismi vari, in cui si dividono i praticanti di tutte le discipline, perpetrando tristemente il vecchio detto popolare che “chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane”.
A ben vedere vi è un rapporto di segreta “solidarietà antitetico-polare” tra la tendenza dei “mistici-alchemici-gelatinosi” , tutta mentale ma senza nessuna sostanza sotto che possa dare al costrutto solide e sane gambe per camminare, e quella del fitness commerciale che si ferma al lato estetico- muscolare, esibendo corpi senz’anima da vendere in vetrina come pezzi di carne sul banco del macellaio.
E’ la stessa storia: o teste senza corpi o corpi senza testa.
Entrambe le visioni producono forme di coscienza ego-centrata, alienata e dis-integrata.
Forme di coscienza che non reggeranno a nessuno spintone della vita, metaforico o reale.
Personalmente preferisco occuparmi di trasmettere la complessità che ci viene dalle tradizioni antiche, che vanno si rese vive e attualizzate da interpretazioni moderne, ma non svilite e snaturate nei presupposti, nei princìpi di fondo.
Voglio il pane e anche le rose.
Sano lavoro fisico, non finto e perennemente in ipostress (che non produce nessun cambiamento) ma sudato, capace di costruire una struttura corporea che ci accompagni a vivere la vita con dignità soprattutto in vecchiaia, e al tempo stesso non un corpo di plastica da vetrina, ma alambicco delle più ardite ricerche di trasformazione interiore, a partire dalla demolizione delle ordinarie fissazioni dell’ego.
Questa per me è la strada di un cavaliere dei tempi moderni, capace di dare risposte concrete ed efficaci a questa epoca storica di svolta, decisamente apocalittica perchè ci sia ancora tempo da perdere con visioni limitate che non siano INTEGRALMENTE spendibili al servizio di vite migliori (come direbbe il maestro Yuan Zumou una umanità più umana) sul piano individuale e collettivo.
Sapere e soprattutto agire.
Ai Wushi